Mercati /2
Qui si parla italiano, mi dicono. I broccoli sono cavolfiori, gli sparacelli sono broccoli.
Non si compra al chilo ma a pezzo.
"Voglio sei mele, tre arance e quattro patate".
Sono banchi ordinati, sono negozi su ruota, hanno la cassa con il bancomat.
Cammino e guardo le signore con il numero in mano, le file ordinate davanti al pesce che sembra di marmo.
Per consolare me e i miei pari però, in ogni mercato, c'è il banco che viene da giù.
Le aggiughe sono sempre di Sciacca e i pistacchi di Bronte. Primo sale, caciocavallo e ricotta salata. Ritrovo cavolicelli, tenerumi e melenzanine. Pomodori secchi, estratto fresco e troppo origano.
Penso che posso parlare qui, quella lingua che non è italiano. Posso svelare che non so quale sia la differenza tra gentilina e manigotto e che vorrei tanto, invece di quelle pesche così gialle e perfette, le diafane sbergie della mia infanzia.
Invece è solo un falso, le generazioni sono troppe e il ricordo della nonna è più tarocco del carretto colorato sopra il bancone. Ha poco più di venti anni lei e non sa bene dove sia il paese della mamma, ricorda poco e male. Si esibisce in dialoghi stereotipati con un accento artefatto in stile Gabriel Garko.
Rispondo con la lingua neutra che uso da quando sono qui, per sentirmi meno l'emigrato che va a votare di Verdone.
Sorrido e annuisco per cortesia. Pago con carta e saluto a voce bassa per non farmi notare.
'Che noi terroni, anche se stiamo qui da tanti anni, parliamo tutti ad alta voce.
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